Documentari

STORIE DELL’ARTE

Storie dell’Arte raccontate da Pier Luigi Siena
Gino Severini, Nino Franchina, Luigi Veronesi, Lucio Fontana, Alberto Burri
DVD – Regia di Katia Bernardi
Provincia Autonoma di Bolzano – Alto Adige, Cultura italiana; 2004
Durata 5 x 15 min.

LUCIO FONTANA

Regia: Katia Bernardi
Collaborazione di: Pierluigi Siena
Riprese: Rudy Concer
Copyright: Provincia Autonoma di Bolzano
Anno: 2001
Durata: 15′

Interventi: Pier Luigi Siena, Agostino Bonalumi – artista e allievo di L. Fontana

Si avvicina all’arte, seguendo le orme del padre, scultore dÂ’impronta fortemente commerciale.
Del 1930  la sua prima mostra personale a Milano alla Galleria Milione e l’adesione al gruppo degli astrattisti milanesi. Le sue sculture in gesso, terracotta e ferro e le formelle in cemento graffito colorato, testimoniano per tutto il decennio, l’interesse di Fontana per i tracciati lineari, ora calibrati, ora estrosi fino all’ironia, con riferimenti allÂ’espressionismo astratto di Kandinsky e alla scrittura automatica surrealista.
Nel 1934 aderisce al movimento francese Abstraction-Reaction assieme a Melotti, Soldati, Veronesi e l’anno seguente inizia l’attività  di ceramista per la fabbrica di Tulio Mazzotti ad Albisola. Le sue ceramiche rivelano una particolare attenzione alle potenzialità  espressive della materia trattata, alla sua duttilità e plasmabilità  al tocco e alla vividità  cromatica.
Evolve una sensibilità  tutta informale e insieme memore della figurazione barocca, del colore luce di Van Gogh, del dinamismo plastico di Boccioni – fonti che poi citerà  negli scritti. Dal 1940 al 1946 si stabilisce a Buenos Aires: nel Manifesto Blanco, redatto nel 1946 assieme ad un gruppo di allievi, Fontana si presenta come lucido e inizialmente incompreso sostenitore di un’arte come superamento dei generi espressivi tradizionali. Nel 1947 ritorna a Milano, dove, in una serie di contatti con artisti, architetti, critici, lancia le basi dello Spazialismo il cui manifesto, del 1948-49, contiene unÂ’esplicita rivendicazione della creatività inerente al gesto.
Emerge la tematica dei “buchi”, con quel “gesto” che renderà  l’artista famoso ovunque. I primi sono del 1949 su cartone o tela e sono denominati Concetti spaziali escludendo una possibilità di lettura in chiave di rappresentazione.
Se la matrice è¨ gestuale, la progettualità  perseguita¨ quella di un indagine spaziale, la rivelazione dell’infinito, al di là  dei limiti del quadro. Dal 1952 al 56, Fontana attraversa una fase specificamente informale: le tele si aggrovigliano in un contesto di inserti materici, sabbia, lustrini, vetri colorati.
Nel 1958, in contrasto con questa linea, nasce la serie dei “tagli” o Attese, condotti su tele monocromatiche, prima multipli in scandita successione, poi solamente unici, con un netto anticipo sulle tendenze dell’arte negli anni Sessanta, dalla pittura monocroma alle strutture primarie.
Con i tagli Fontana stravolge il senso di una superficie dipinta, proponendo un collegamento immediato, anche se doloroso, con lo spazio esterno e quello interno. Tale ricerca raggiunge il suo vertice nella Sala Bianca, allestita nel 1966 per la Biennale di Venezia, volta alla suggestione di una metafisica spazialità.
Degli anni successivi sono, oltre ai Concetti spaziali, altre serie di segno opposto, come Le Nature, sfere in grès turgide e scavate e i Teatrini, costruzioni oggettuali in tela e legno laccato, reminescenti della Pop, ma definiti dall’autore esempi di “spazialismo realista”.
La ricerca di Fontana si articola così per cicli posti in dialettica concomitanza, nella antinomia fra materia e spazio, colorismo vitalistico e acromaticità, espansione dell’immagine e percezione del vuoto, recupero della attività artigianale e proiezione nel futuro elettronico.

Alberto Burri

Regia: Katia Bernardi
Collaborazione di: Pierluigi Siena
Riprese: Rudy Concer
Copyright: Provincia Autonoma di Bolzano
Anno: 2001
Durata: 15′

L’ufficio Cultura Italiana Provincia Autonoma di Bolzano presenta un’altra iniziativa per capire l’arte attraverso un percorso guidato.

Alberto Burri (Città di Castello 1915 – Nizza 1995)

Interventi: Pier Luigi Siena, Chiara Sarteanesi è direttrice della fondazione Burri, Città di Castello

Inizia a dipingere durante la prigionia in Texas e rientrato in Italia nel 1946 abbandona la precedente professione di medico, per dedicarsi completamente alla pittura.
Dopo una prima esperienza figurativa inizia a realizzare opere astratte in cui i materiali particolari (muffe, catrami, smalti, sabbie, oli) si aggiungono al colore dandogli una nuova dimensione tattile e reagendo differentemente all’incidenza della luce. Nel 1951, firma con Capogrossi, Colla, Ballocco il manifesto del gruppo “Origine” inserendosi nelle nuove problematiche informali. Nel 1950 utilizza per la prima volta, vecchi sacchi di juta sbrindellati e rattoppati, quel materiale che durante la prigionia gli era servito da supporto per la sua pittura e che ora acquista una propria autonomia espressiva. Piatte stesure di colore, in variazioni molteplici, si giustappongono alla trama ruvida di cuciture e pezzature di sacchi da spedizione o lembi di tele più sottili. (Sacco, 1952: Città di Castello, Fond. Albizzini; Grande Sacco, 1952; Roma, GNAM) Si impone allÂ’attenzione internazionale a partire dal 1952, con la partecipazione alla Biennale di Venezia: Lucio Fontana acquista una delle due opere esposte, Studio per uno strappo.
Nel 1956 presenta un nuovo ciclo di lavori: Le Combustioni. In queste opere i materiali pittorici, plastici (Le Plastiche) e i sottili strati di legno (I Legni) sono deformati con il fuoco subendo una trasformazione espressiva. Al volgere degli anni Sessanta presenta i Ferri (Ferro Grande, 1958, Houston, MFA) in cui, nonostante la difficoltà di lavorazione di tali materiali riesce a recuperare ad una dimensione pittorica anche vecchi barattoli. A partire dagli anni Settanta, Burri opera in direzione di una rarefazione dei materiali e dei mezzi tecnici e formali in favore di soluzioni monumentali con I Cellotex, opere in acrilico su segatura pressata per uso industriale e con I Cretti, terre sintetiche e vinavil.
Successivamente inizia a realizzare complessi organismi ciclici, a struttura polifonica. (Il Viaggio, Città di Castello, 1979; Orti, Firenze, 1980; Sestante, Venezia, 1983, Il nero e L’Oro, Città  di Castello, 1993) Nel 1981 si è aperto a Città di Castello il Museo Burri presso palazzo Albizzini, che nel 1989 acquista gli Ex Seccatoi dei Tabacchi, complesse architetture industriali, trasformate in contenitore ideale per i grandi cicli pittorici di Burri, molti dei quali donati dall’artista a Città di Castello.

Gino Severini

Regia: Katia Berardi
Collaborazione di: Pierluigi Siena
Riprese: Rudy Cocer
Copyright: Provincia Autonoma di Bolzano
Anno: 2001
Durata: 15′

L’ufficio Cultura Italiana e la Provincia Autonoma di Bolzano  presenta un’altra iniziativa per capire l’arte attraverso un percorso guidato.

Gino Severini (Cortona 1883 – Parigi 1966)

Interventi: Pier Luigi Siena, Romana Severini, figlia del pittore, Daniela Fonti, curatrice della mostra “Severini futurista”, Museo Gugenheim, Venezia Inizia a dipingere molto giovane a Roma dove conosce Umberto Boccioni e con lui frequenta lo studio di Giacomo Balla, artista già  affermato da cui ricava i primi contatti con il post-impressionismo e la tecnica divisionista, che influenzeranno le sue prime composizioni
(Via di Porta Pinciana al tramonto, 1903).
A Parigi, dove si trasferisce nel 1906, Severini conosce l’arte di Seurat, stringe amicizia con Modigliani e può ammirare le opere cubiste di Picasso e Braque.
Nel 1910 aderisce al Manifesto della pittura futurista, assieme a Balla, Boccioni, Carrà e Russolo e negli anni seguenti svolge una proficua funzione di tramite tra l’arte degli amici futuristi e gli ultimi sviluppi della ricerca artistica raggiunti nella capitale francese, in particolare con il cubismo.
A Parigi frequenta oltre ai circoli di intellettuali, i cabarets ed i locali di Mont Martre, dipingendo scene di vita notturna. Sono di questo periodo opere come Le chat noir, (1912), La dance du Pan Pan a Monico, una tela che sintetizza cubismo e futurismo (distrutta durante il nazismo e ridipinta nel 1959 da Severini stesso, in base a fotografie), le prime Danzatrici, che rivelano una “Weltanschaung” (visione della realtà ) del tutto rinnovata, in seguito alle teorizzazioni futuriste di Marinetti, ma anche e soprattutto per una nuova concezione della pittura da parte di Severini.
Brillantezza del colore, rottura degli schemi prospettici e della gerarchia figurativa, movimento e dinamismo futurista si esplicitano nelle opere di questo periodo, in particolare nella serie di dipinti ispirati alla danza, (Ryhtme de danseuse en bleu, 1912), che offrono anche la scoperta della simultaneità  e la moltiplicazione dei punti di vista. Contemporaneamente e negli anni successivi Severini sperimenta anche i collage cubisti (Omaggio a mio padre, 1912), interpretando la scomposizione cubista come successione ritmica di piani e colori (La donna seduta, 1914).
Nel 1916, tempera la sperimentazione in una classicità  tipicamente italiana (Ritratto di Jeanne e Maternità , 1916), anticipando il “ritorno all’ordine” proclamato di lì a poco in tutta Europa.
Conosce il matematico Bricard, si appassiona agli studi della geometria e della matematica e nel 1921 pubblica il testo Du cubisme au classicisme in cui si esplicita il suo interesse teorico-scientifico e la ricerca estetica di armonia e rigore costruttivo.
Sotto il segno del ritorno ad un plasticismo di stampo tradizionale sono le grandi decorazioni del castello di Montefugoni (Firenze), e i vari Arlecchini e maschere del teatro dell’arte. Dopo l’incontro con il filosofo Maritain, si acuiscono le crisi religiose e Severini si avvia ad una concezione dell’arte sempre più mistica.
Vuole creare una nuova lettura del sacro, attraverso la decorazione parietale delle chiese, recuperando allÂ’artista il suo antico mestiere di narratore al servizio dello spirito. Tra la metà  degli anni Venti e Trenta, affresca e lavora a mosaico in molte chiese svizzere. Negli anni Quaranta torna ad una sorta di post-cubismo.
Abbandonata la registrazione documentaria dei fatti, la sua pittura approda ad una rinnovata libertà  formale. Severini ritorna al tema caro della danza e dello spettacolo come vortice astratto di luci e colori
(Ritmo ed architettura delle tre Grazie, 1949; Pas de deux n. 1, 2, 1950).

Luigi Veronesi

Regia: Katia Bernardi
Riprese: Rudy Concer
Collaborazione di: Dottor Pierluigi Siena
Copyright: Provincia Autonoma di Bolzano
Anno: 2001
Durata: 15′

L’ufficio Cultura Italiana e la Provincia Autonoma di Bolzano  presenta un’altra iniziativa per capire l’arte attraverso un percorso guidato.

Luigi Veronesi (Milano 1908 – 1998)

Nato a Milano, all’età di 17 anni, grazie alla camera oscura del padre, inizia ad analizzare e sondare le potenzialità creative del fotogramma.

Negli anni venti inizia l’attività artistica, frequentando un corso di disegnatore tessile, e contemporaneamente svolge ricerche nell’ambito fotografico che gli consentono di ottenere, attraverso determinate tecniche, immagini dense di originalità. Fu introdotto da Raffalle Giolli in un gruppo di intellettuali associati con la rivista Poligono. A 20 anni comincia ad interessarsi alla pittura studiando presso il pittore napoletano Carmelo Violante, allora professore presso l’Accademia Carrara di Bergamo.

Partecipa alla prima mostra collettiva di arte astratta d’Italia, il 4 marzo 1935 nello studio dei pittori Felice Casorati e Enrico Paolucci in Torino, con gli artisti Oreste Bogliardi, Cristoforo De Amicis, Ezio D’Errico, Lucio Fontana, Virginio Ghiringhelli, Osvaldo Licini, Fausto Melotti, Mauro Reggiani e Atanasio Soldati, i quali firmarono il “Manifesto della Prima Mostra Collettiva di Arte Astratta Italiana”. Un anno dopo Veronesi è l’illustratore del libro di geometria di Leonardo Sinisgalli. Partecipa alla Triennale di Milano nel 1936. Lo stesso anno partecipa a una mostra di arte astratta in Como con Lucio Fontana, Virginio Ghiringhelli, Osvaldo Licini, Alberto Magnelli, Fausto Melotti, Enrico Prampolini, Mario Radice, Mauro Reggiani, Manlio Rho e Atanasio Soldati. Il catalogo contiene una presentazione scritta da Alberto Sartoris. Nel 1939 presentó una mostra personale nella Gallerie L’Equipe in Parigi.

A Milano, nel 1932, la galleria Il Milione ospita le sue prime creazioni, di tipo figurativo: in seguito, inizia la sua personale ricerca nell’ambito dell’astrattismo.

Nel 1934 aderisce al gruppo parigino Abstraction-Création, conosce le esperienze del costruttivismo svizzero ed aderisce, al metodo del Bauhaus tedesco. Partecipa alla mostra Arte astratta arte concerta nel Palazzo Reale di Milano. Molto attivo prima in teatro e poi al cinema[1][2], con un totale di 6 film sperimentali e astratti realizzati, di cui 4 completamente perduti, mentre degli altri rimangono solo brevi spezzoni non proiettabili (i primi risalenti agli anni quaranta). Durante la guerra utilizza le sue conoscenze di grafica e design e diviene falsario per il Movimento di liberazione nazionale (si veda in bibliografia 1). Nel dopoguerra fu cofondatore del gruppo fotografico La Bussola. Lavora per molti anni come grafico e pubblicitario, ed alcuni suoi fotogrammi diventano copertine per riviste quali Campografico e Ferrania.

Successivamente si interessa anche alla musica, creando una polidimensionalità dell’arte intesa come un progetto globale, approfondendo la sua ricerca sui rapporti matematici delle note musicali, traducendoli nei rapporti tonali del colore. Crea così numerose trasposizioni cromatiche di partiture musicali. Alla fine degli anni novanta, queste sue ricerche sono state sviluppate dal musicista Sergio Maltagliati.[3] Divenne infine negli anni settanta docente di cromatologia per l’Accademia di Belle Arti di Brera.

Partecipa attivamente alla maggior parte delle mostre di quegli anni, quale la mostra dell’astrattismo italiano alla XXXIII Biennale di Venezia, il Festival di Musica Contemporanea ed una personale alla Galleria Spatia di Bolzano nel 1980 e un’altra a Pordenone nel 1984. Nel 1987 insieme aMaria Lai, Costantino Nivola, Guido Strazza realizza il progetto artistico del Lavatoio Comunale di Ulassai in Sardegna. Nel 1989 Luigi Veronesi fu coautore, con Giancarlo Pauletto, di un libro sull’artista Genesio De Gottardo. Sempre negli anni ottanta progetta diverse scenografie per il Teatro alla Scala di Milano.

Si è spento nella sua città natale nel 1998.

(fonte: wikipedia.org)

Nino Franchina

Regia: Katia Berardi
Collaborazione di: Pierluigi Siena
Riprese: Rudy Cocer
Copyright: Provincia Autonoma di Bolzano
Anno: 2001
Durata: 15′

L’ufficio Cultura Italiana e la Provincia Autonoma di Bolzano  presenta un’altra iniziativa per capire l’arte attraverso un percorso guidato.

Nino Franchina (Palmanova 1912 – Roma 1987)

Interventi: Pier Luigi Siena, Gina Severini – moglie di N. Franchina

Nato a Palmanova, in Provincia di Udine, si trasferisce con la famiglia, di origine siciliana, a Palermo dove nel 1934 si diploma all’Accademia di Belle Arti.
Dopo le prime esperienze in campo figurativo, a partire dal 1935, per circa un decennio, la scultura di Franchina si sviluppa in direzione di un potente linguaggio plastico basato su elementi arcaici e primitivi.
Assieme a Guttuso, Barbera e Noto da vita al Gruppo dei Quattro e trasferitosi a Milano viene in contatto con Corrente, partecipando assiduamente alle attività del movimento. Nel 1939 si trasferisce a Roma e partecipa alla III Quadriennale dove espone alcune terracotte tra cui Ritratto di mia madre (1935).
Durante gli anni Quaranta, Franchina soggiorna spesso a Parigi dove assorbe ed elabora gli stimoli culturali ed artistici della capitale francese. Già  dalla seconda metà  del decennio, rivela un’apertura verso un linguaggio più sintetico, non tralasciando le suggestioni di forme originarie, insieme all’esperienza di tutta una linea di scultura, da Brancusi, direttamente osservato a Parigi, a Laurens, Adam e Moore.
In una carrozzeria di Bolzano, nel 1950, crea sculture di forte dinamismo come Fuoriserie in grigio e nero (1951), Ala rossa (1951), Murale policroma (1952), utilizzando ferro, lamiere, parti di automobili e pitture industriali. Sono opere realizzate con lamiere saldate tra loro, dalle superfici lisce e brillanti, verniciate con colori per auto in tinte forti, rosso, nero, blu.
Due anni dopo espone a Milano e Merano opere che segnano unÂ’ulteriore fase della sua ricerca: abbandona le superfici levigate, e le sostituite con assemblaggi di oggetti di uso comune trattando il ferro con una nuova asprezza, rivolgendosi ora a forme evocative, ora a forme emblematiche improntate ad una forte energia tutta informale.
Sono aggregazioni verticali di leghe metalliche ruvide e grezze, non più verniciate ma monocrome. Anche i titoli delle sue nuove opere Disegno nello spazio, Arabesque, Decorativa alludono ad una diversa ricerca di ritmi, non più volumetrici.
Tra il 1961 ed il 1970, Franchina sviluppa un tema ricorrente nella sua scultura, quello dei Paladini di Francia, con opere come la Battaglia di Roncisvalle (1970).
Negli anni successivi si dedica a costruzioni monumentali ed intensifica la sua partecipazione a mostre nazionali ed internazionali.